LISBOA PESSOA ELETRICO

https://youtu.be/6jqr6xyzfY4

[BIObyBAI, capitolo 43] 

LISBONA

[Come hai visto] un bel po’ di cose le abbiamo fatte, ma a volte ci piace farle difficili. Realizzare una mostra fuori Milano è già complicato, ma noi facciamo l’impossibile e grazie a Marco Drusian, detto Druido, già studente dell’ISA, oggi architetto per il comune di Lisbona (c’era andato per l’Erasmus e ci è rimasto, quanti bravi studenti ho avuto!) realizziamo un evento anche lì: "Milano-Lisboa: peace in a bottle", una mostra minimale che ci deve stare in una valigia. La mostra sarà da Op Art, un bellissimo bar all’Alcantara, sotto il ponte del 25 abril, sì perché la rivoluzione dei garofani è scoppiata il 25 aprile: la notizia arrivò in piazzale Loreto durante la manifestazione.

Su Lisbona ce ne sarebbero storie da raccontare, ma mi limito per ora a segnalare come assolutamente indispensabile una corsa sul tram 28 (fate tutto il percorso, da capolinea a capolinea), ricordare come uno stesso appartamento tappezzato di azulejos compaia sia in Lisbon Story di Wenders che in Sostiene Pereira di Faenza, e che il grande incendio del 1988 che distrusse Chiado scoppiò pochi giorni dopo la mia partenza.

Ecco, ora posso raccontarti il mio NATALE A LISBONA. 

Ora di cena, e nessuno in giro, la vigilia di Natale. Davvero tuttochiuso nel Bairro Alto. Ce lo aveva detto quel tipo che assomiglia a Pessoa, cioè a Tabucchi, cioè a Pessoa. Glielo aveva detto a Milano un pittore portoghese, che non ne ho la certezza, ma non può essere che Josè. C’è un ristorante cinese che ci salva: i cinesi ci salvano sempre, sarà così anche a Coimbra, la sera del primo gennaio.

Ci sono delle cose che mi ricordo sempre quando penso a Lisbona: una è la Cervecerja Trinidade, con i suoi azulejos e le stanze una dietro l'altra. C'ero stato la prima volta, prima dell'incendio, con un francese che aveva chiesto un po' per trovarla, e ne avevo solo un vago ricordo, oltre che dell'interno, di una strada in salita nel Bairro, e infatti non l'avevo ritrovata, salvo farmela indicare dagli amici di Alessia, l'anno scorso, che erano appena usciti di lì: e infine con Laura sono tornato per mangiare l'açorda, che la prima volta avevo scelto perché costava meno, e questa volta perché volevo proprio mangiarla. Ma ci sono arrivato al terzo tentativo: una volta era chiusa, una sovraffollata e la terza abbiamo deciso di fare comunque la fila. E poi in giro col Druido a vedere un po' di locali, dallo Stadio al Majong, in posti che sembravano tanto Milano, la sera prima di andare a Porto.

A proposito di locali chissà se la notte di Natale c'era qualcosa di aperto giù al Cais, sotto la rua de Alecrim, tra quei locali dai nomi esotici come Oslo, Copenaghen, New York, Arizona, Texas, luoghi che non invogliano a entrare.

E ancora mi ricordo sempre della festa di addio a Milano di Marcello, che si trasferiva a Lisbona. Nel giro di due mesi era tornato.

Giorno di Natale, a Belem il vento è gelido e comincia ad arrivare un po' troppa gente: è l'una e mezza quando telefono al Druido, che si è appena svegliato e dovrebbe cominciare a preparare gli gnocchi. Ovviamente ci invita per il pranzo di Natale: che cosa gli portiamo? A Belem le pasticcerie erano aperte, ma qui in Baixa non ce n'è ombra e allora potremmo portare dei panini o delle polpette, e alla fine si opta per un po' di lattine di birra. Sono più le tre che le due e mezza quando arriviamo a Sao Domingos, che è vicinissimo all’Hotel Portugal, dove alloggiamo, e ancora più vicino al Rossio.

Le patate sono cotte, si tratta di cominciare a trasformarle e di fare il ragù: nonostante sia a base di hamburger scongelate verrà buonissimo. Stiamo facendo gnocchi da un bel po' quando arrivano gli altri, che però hanno un appuntamento alla Graça alle cinque. Vogliamo perderci il tramonto? E poi appena scende il freddo e non si riesce più a stare seduti ai tavolini, guardando giù la città ci si divide: qualcuno a lavorare, Giorgio a fare gli gnocchi, noi col Druido in Alfama, che col buio che avanza è bella quanto come con il sole.

È una sera in cui si ricongiungono i nomi con i luoghi: alla Graça c'ero stato, ma non collegavo, mentre cercando il teatro romano siamo finiti in rua da Saudade, l'ipotetica via della casa di Pereira. A proposito, ormai mi è difficile parlare di Pessoa senza chiamarlo Pereira.

Verso le dieci, quando ritorniamo a casa Betti e Inès stanno uscendo, per andare alla Stazione, a prendere suo fratello, che arriva da Madrid: suonerà il violino tutta la notte. E così il pranzo di Natale inizia verso le dieci e mezza di sera, ci sarà anche il panettone.

"Questa casa resterà chiusa, in via eccezionale, il 26 dicembre. La Direzione." E così Casa Pessoa, che doveva essere aperta il 26 dicembre, è chiusa. Oddio, è ragionevole che lo sia, ma sembrava che fosse tutto finito: nel pomeriggio del venticinque c'era una animazione da giorno feriale, e invece Casa Pessoa... Chissà se riusciremo a tornare. C'è anche l'Antica casa Pessoa che è un ristorante dove andava a mangiare negli anni '10, ma mi interessa meno, e così vale per Martinho de arcada in Plaça du Commercio.

A Casa Pessoa riuscirò a tornarci alle sei meno cinque del giorno prima di partire, solo il tempo di lasciare la videocassetta di Lisboa-Pessoa, realizzata l’anno prima. E pensare che avrebbero dovuto ricevermi comunque, e peggio per loro. Adesso mi aspetto i ringraziamenti

E poi la cena di addio con Ste e la Giorgia, e nemmeno la voglia di farsi tutta la notte in giro per aspettare le cinque per mangiare dagli africani, che a quell’ora aprono le loro case e cucinano per te.

E ancora l’omaggio a Lisbona che ho scritto nel 1995 per L’Indipendente. Riprende alcuni spunti del racconto precedente, ma mi piace conservarli.

“Prendere un aereo per andare a prendere un tram può sembrare palesemente eccentrico, non se il tram è il mitico numero ventotto che attraversa tutta Lisbona, e da Martin Monìz, proprio dietro a Praça da Figueira, risale fino alla Graça e poi giù per tutta l'Alfama – per vie dove ci passa solo lui – alla cattedrale, e dopo la Praça do Comércio risale al Chiado, a salutare Pessoa, seduto davanti a Casa Havaneza, e poi fino all'Estrela e al cimitero di Prazeres. Sferragliando e ansimando per pendii impensabili per un trabiccolo che ha magari settant'anni, portandosi paziente i ragazzini appesi all'esterno, allora questo viaggio vale la pena di farlo, e magari di rifarlo più volte (sia quello sul tram, sia quello aereo per andare a prenderlo).

È recente il mio amore per Lisbona, data la fine degli anni ottanta, rinvigorito da una recente assidua frequentazione; un amore di quelli che farebbero storcere il naso a Tabucchi - che contro la recente scoperta di Lisbona da parte di troppi ha minacciato di trasferirsi ad Oslo - ma come tutti gli amori tardivi sicuramente motivato. Due film di quest'anno, Lisbon Story di Wenders e Sostiene Pereira di Faenza - dal romanzo di Tabucchi - ci hanno parlato di Lisbona e della sua bellezza, proponendo, oltre che due storie diverse, due differenti letture della città. Due storie diverse non solo per l'ambientazione, contemporanea quella di Wenders, alla fine degli anni Trenta quella di Faenza (e di Tabucchi, quindi), ma per come ci parlano della città, e soprattutto di come ce la mostrano, ricca di particolari quella di Wenders, molto più avara – tradendo il testo di Tabucchi, ricchissimo di indicazioni e descrizioni e sicuramente ispirato dal libretto di Pessoa Lisbon. What the Tourist Should See – quella di Faenza. Ma non si può per questo parlare di Lisbona lì protagonista e qui comparsa, perché il suo spirito è comunque presente. E poi prima di loro Tanner, con il suo Dans la Ville Blanche, aveva aperto le menti a quanti non si erano già fatti attirare – a metà degli anni settanta – dalla Rivoluzione dei Garofani, e ci aveva descritto la luce di questa città in prossimità dell'Oceano, affacciata su di un fiume che è un mare, e ricca di salite e discese come una città di montagna. I mitici tram di Lisbona, coperti di pubblicità da sempre – da fare impallidire i jumbo milanesi – riescono ad arrivare là dove le auto bruciano le frizioni, su e giù per vie strettissime e tortuose, soprattutto nell’Alfama, dove si trova le case – anzi, la casa, perché è la stessa! – dove vivono i protagonisti dei due film: ma quella visione su San Vicente do Fora non è l'unica possibile, sono decine o centinaia i luoghi da cui guardare, quasi spiare, la città. In Alfama, che col buio che avanza è bella quanto con il sole, si ricongiungono i nomi con i luoghi: cercando il teatro romano si finisce in rua da Saudade, la via dove Tabucchi pone la casa di Pereira (a proposito, ormai mi è difficile parlare di Pessoa senza chiamarlo Pereira), mentre risalendo la Rua da Voz Operaria, una volta lasciata la Feira da Ladra – il mercato delle pulci – si arriva alla Graça, dove si può bere una limonata spingendo la vista verso la Baixa e il Bairro. E il tram che percorre le vie dell'Alfama lo troviamo in tutti e due i film, ma difficilmente Pereira/Mastroianni è inquadrato in luoghi immediatamente riconoscibili, la funicolare della Bica, uno scorcio del Bairro Alto, un'altro sul Castello, e nel finale mentre percorre la Rua Augusta, per andare a imbarcarsi al Terreiro do Paço per l'altra riva del Tago.

La città di Wenders è quasi sempre riconoscibile, anche nelle inquadrature apparentemente anonime, nei quartieri nuovi verso l'aeroporto, nell'acquedotto delle Aguas Livres che sovrasta le baracche lungo l'autostrada o nel mercato del Campo de Santa Clara, come nelle vie dell'Alfama percorse in tram o dove si incontra Manuel de Oliveira.

Sempre in tram si arriva a Belém, al Convento dos Jerònimos, o al Museo di arte Antica per ammirare la Tentazione di Sant’Antonio di Bosch (che qui, come a Madrid chiamano El Bosco), ma anche alla Cervecerja Trinidade, con i suoi azulejos e le stanze una dietro l'altra, vicino al Chiado, dove Pessoa sta sempre seduto a farsi fotografare a un tavolino del caffè A Brasileira [Ma come non era il negozio di sigari? Sigari e caffè non possono che stare accanto…]. E per completare un itinerario "Pessoa a tutti i costi" si può ridiscendere nella Baixa con l'ascensore costruito da Eiffel e andare all'Antica casa Pessoa che è un ristorante dove andava a mangiare negli anni '10.

Come dopo il grande terremoto del 1755 la città era stata ricostruita dal Marchese di Pombal, oggi l'architetto Alvaro Siza Vieira che sta ricostruendo il quartiere del Carmo, distrutto dall' incendio del 1988 (c'ero stato quell'anno la prima volta, ed ero ripartito pochi giorni prima dell'incendio): già cominciano ad aprire le boutiques dei grandi stilisti, che non c'entrano niente, anche se rispettano le strutture architettoniche primitive.

Qualche centinaio di metri più su le vie e i vicoli della vita notturna, dove tra locali di fado per turisti, che invece non girano per l'Alfama di sera, dove si possono trovare minuscoli ristoranti o cantine con il "vero" fado, facendo attenzione a respingere i piattini di extra non richiesti che altrimenti ti raddoppiano il conto.

E poi si può finire al Cais, sotto la rua de Alecrim, che scende a precipizio dal Chiado al mare, e dove si rischia di farsi accendere una sigaretta da Pessoa stesso, tra quei locali dai nomi esotici come Oslo, Copenaghen, New York, Arizona, Texas, luoghi che non invogliano a entrare, o, molto più divertente, mangiare in quelle case che alle cinque del mattino si aprono al pubblico per offrire le specialità della cucina africana.

E un tram per ritornare”.



 

73


//(AUTO)d’APRèS//

    QUANDOEROPICCOLO   

    #MERENDIVO

 #MERITIVO  

    #COMPLESSAGE 

    #SETTANTATRE  

DOMENICA 23  MARZO 2025

DALLE 16 ALLE 20

 (E OLTRE, SE NECESSARIO)



MUSEOTEO+

                                                                  VIA STROMBOLI 3   [CIT. 9]   MILANO

                                                             M 4 CALIFORNIA 

                                                                 [ BUS 50, 58, 68 - TRAM 10]


QUANDO ERO PICCOLO: MERITIVO/COMPLESSAGE/73

(Auto)d’APRèS è un omaggio ad Autodamè di Enrico Baj, «parodia patafisica dell’austero Auto da fé, di Elias Canetti, [che] suona come un calembour di Duchamp, una parola portmanteau di Carroll, una combinaison di Queneau, un vocabolo dell’Oulipo» di cui meritivo [o merentivo] e complessage sono ovviamente ed evidentemente parte costituente.

Il meritivo è un’alternativa semantica dell’apericena, termine inascoltabile e intollerabile, ma soprattutto socioculturale: dalla merenda all’aperitivo, ma non succede nulla di particolare, se non l’incontrarsi. E “guardare, mangiare e bere” (op.cit.), come in una inaugurazione che si rispetti. Dove, ovviamente, vale anche una toccata e fuga, che anzi per qualcuno sarebbe l’ideale.

Complessage non è un gioco di carte (per ingannare il tempo in un pomeriggio in cui non accade nulla, salvo che voi lo vogliate), cui sono notoriamente allergico nonché totalmente inetto (sapevatelo), ma sta banalmente per vernissage di compleanno. Due cose di cui sono molto esperto, sia per pratica che per età: celebri sono stati quelli per i quaranta (Ogni scarrafone è bello a mamma soie, Galleria di Porta Ticinese, grazie a Gigliola Rovasino e Bianca Tosatti), cinquanta (Breve storia epistolare dell’arte, Studio D’Ars, grazie a Grazia Chiesa e Lea Vergine), sessanta (sessanta x sessanta, Studio Pigreca, grazie a Flavia Alman e Sabine Reiff). Ci sono stati anche i sessantacinque con la mostra S/Corporea e i settanta entrambi c/o Museoteo+. Nell’ultima occasione ho presentato una nuova opera NY/Manet e lo storico autoritratto/alterego rappresentato dagli abiti che indossavo il 24 settembre 1990 alla mostra Sansistosei, che ha segnato la nascita di Museo Teo (quest’anno celebreremo i Trentacinque, sapevatelo), opera ripresa sia in Anamorfosi del presente che Da vicino nessuno è lontano, e che tanto è in permanenza nella collezione…

Anche in questa occasione nuove opere, autoritratti della serie infinita Io Narciso realizzati quest’anno, ma d’après perché la foto originale non è stata scattata da me.

Due ritratti inediti di Carlo Ansaloni e Marco Caselli (Multimedia Bus, Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1979) e di Doretta Cecchi del 1980 (circa), due, noti solo agli amici, uno di Maurizio Oglio (1972), l'altro di un membro della Brigata Poder Popular (probabilmente Klaus o Marco, Università Statale, 1974), e poi la interpretazione di una storica foto d Paolo Sacchi, pubblicata su Museo Teo Artfanzine # 8 - ottobre 1995. Infine il ritratto di Jochen Gerz del 2007 per la mostra Salviamo la luna. (Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo). Salvo rendersi conto che la foto di Paolo Sacchi era già stata rielaborata da Alessandra Villani e Carlo Gandolfi nel citato MTAF #8.

E infine il ritratto che mi regala Carolina: "E poi si diventa grandi", 2025.

Su richiesta sarà possibile vedere un autoritratto realizzato recentemente da foto metà anni ottanta (probabilmente) esposto nel Gabinetto dei disegni verde e blu (Vietato ai minori di 16 anni, come si usava una volta).

Prima era ogni dieci anni, poi cinque, ma poiché è impossibile festeggiare un compleanno ogni due-emmezzo (che in realtà coinciderebbe con quello di Museo Teo) facciamo tre, che la prossima volta saranno due, ma se contiamo il tre-emmezzo di Museo Teo sara uno-emmezzo… d’altronde come ho più volte ribadito rispetto alla numerazione di Museo Teo Artfanzine, la numerazione è una opinione.

Sull’età però esistono solo certezze.

E comunque "Self drinks (and food) are welcome!"

https://www.facebook.com/events/4066962510199246










                                                         "E poi si diventa grandi"





DAVIDE MERCATALI





 





Good Bai

 Vi presento Giovanni Bai, sociologo, artista e di un'anarchia caleidoscopica




Oggi vi presento uno dei miei ultimi videoritratti, sono andato a casa dell’artista Giovanni Bai, ho fatto il mio videoritratto, sono tornato a casa e mi sono fatto mandare una scheda informativa che riporto nei tratti essenziali: Giovanni Bai (Milano, 1952) è sociologo, artista e agitatore culturale. Nel 1990 ha fondato l’associazione culturale Museo Teo, “museo senza sede e senza opere”, una atipica istituzione per la diffusione dell’arte contemporanea che dal 1991 pubblica la rivista Museo Teo Artfanzine, di cui è direttore. La sua ricerca si articola attorno ai problemi delle metropoli e della comunicazione e del funzionamento dei media. Nella sua produzione artistica utilizza la tecnica che ha messo a punto negli ultimi trent’anni, chiamata videopittura, basata sulle tecnologie videofotografiche e informatiche. Ha esposto nelle principali città italiane e a Parigi, Londra, Berlino, Tokyo e Shanghai. Ha insegnato Storia del pensiero sociologico (Università Statale, Milano).

Ecco, questa è la scheda informativa, ora dico la mia. Giovanni Bai è bello, allegramente bello. Giovanni Bai è intelligente, allegramente intelligente. Giovanni Bai è un agitatore culturale, ma credo che non disdegni agitare anche un Martini zerozerosettesco. Giovanni Bai è erotico, fanciullescamente erotico. Ha una passione smodata e modulata per il Giappone. Emana raggi fotonici anarchici, un'anarchia caleidoscopica che rivela le contraddizioni della società. Gli piace giocare, e io mi trovo sempre bene con le persone che amano il gioco. Giovanni Bai è leggero, ma nel senso spirituale, infatti il museo Teo è senza sede e senza opere, può essere ovunque, in ogni luogo, ma soprattutto trova sede nella nostra mente.

Spesso e volentieri espone in una stanza della sua bella casa milanese, gli artisti prestano le loro opere, poi ci si dà appuntamento per il vernissage Casalingo, ognuno porta qualcosa: una crostata fatta in casa, una bottiglia di spumante o prosecco, un vino rosso o bianco, una tortina salata e così via. Si mangia, si beve, si chiacchiera, si passeggia nella casa, con la stanza adibita a museo che è sempre pronta ad accoglierti come un'amica che ti bisbiglia l'arte nell'orecchio, questa è cultura! Senza la prosopopea di certa arte, il museo Teo parla sempre del presente, sta dalla parte di chi lotta per i diritti civili, rifugge il palazzo del potere, la sua lotta è ad ampio raggio, libera, lieve, intollerante verso ogni forma di ingessatura istituzionale, si articola invece nel vissuto di ognuno di noi, mettendo su un piedistallo fluente il nostro quotidiano, evocando le infinite possibilità dell'immaginazione, non a caso sulla parete d'ingresso dell'appartamento di Bai c'è un biliardino sospeso, un calcio balilla metafisico, con gli omini a testa all'ingiù, in assenza della pallina da gioco, ma dopo un po'capisci che il senso è questo: la pallina c'è ed è semplicemente la nostra immaginazione. Sopra la sua postazione di lavoro c'è la foto di un immenso capezzolo che Bai chiama "la mia luna".

Anche io ho una passione per i capezzoli, fin da quando sono nato! Il capezzolo è vita, nutrimento, piacere. Ogni artista non può fare a meno del capezzolo, sia esso simbolico o reale. Il capezzolo è tutto. Giovanni Bai è un bambino che rinnova sempre la propria infanzia con la consapevolezza di un adulto. Gli piace sperimentare, mette in risalto le distorsioni delle metropoli attraverso la sua arte, perché l'arte è un atto comunicativo complesso che ha il compito di rivelare le nostre mancanze, le nostre distorsioni, appunto. L'essere umano è proprio quell'animale che ha questa capacità neoprometeica di distorcere la propria natura attraverso la tecnica, ma se alla tecnica togli la leggerezza del gioco e della libertà, non restano che i campi di sterminio psichico.

Il Museo Teo è quindi un museo amico, amico dell'umanità (il nome Teo deriva appunto dal cognome di un caro amico e collaboratore di Giovanni Bai), è un museo che parla del presente ma che è già proiettato verso un futuro cosmico di annichilimento totale, tutti i musei del mondo, dal Louvre all'Ermitage, diventeranno musei senza sede e senza opere, annientati dalla follia nucleare dell'uomo o dall'implosione di questa stella che ci è Cascata addosso: il sole. Nel frattempo però, come in un film di Woody Allen, dobbiamo pensare a giocare, divertirci, immaginare, perché il sole è ancora lontano dall'implodere e forse la guerra nucleare non ci sarà, l'uomo non può essere così stupido da ridurre in cenere questa crosta terrestre così croccante e saporita.

In ogni caso, come direbbe l'Ecclesiaste tascabile e personale di Bai: c'è un tempo per nascere e un tempo per rinascere con una nuova cravatta colorata, mai per morire.

  • [Ricky Farina]


FUNGHI

GIOVANNI BAI

FUNGHI (1988-2023) 

CLOSLIEU LA TRACCIA

VIA COL DI LANA 30 – MONZA

INAUGURAZIONE DOMENICA 16 APRILE 2023 ORE 18

FINO AL 30 APRILE SOLO SU APPUNTAMENTO 3336307204 (anche WHATSAPP)

www.closlieulatraccia.com

www.facebook.com/events/942872340051070


 

Nel 1988 ho esposto alla Libreria Manzoni Cultura di Monza la mostra FOGLIE, che così, impersonalmente, presentavo: «Sono immagini di foglie ottenute attraverso la elaborazione video e la successiva trasposizione su tela o supporto fotografico: in alcuni casi il punto di partenza è costituito da vere foglie, in altri le immagini nascono dal nulla, mediante l'uso della luce dello schermo televisivo. Il risultato sono immagini ambigue, quasi inquietanti, dove il realismo e la naturalità di fondo sono annullati dall'ingrandimento e dal conseguente emergere dell'assoluta artificialità del mezzo impiegato. [*] Alle videopitture si aggiunge una piccola scultura, forse più realistica, ma altrettanto improbabile».

Anche se la mia ricerca si è sempre incentrata attorno al ritratto [**] e al corpo umano e al paesaggio, soprattutto urbano, non era la prima volta che affrontavo la natura morta. Due anni prima, nel 1986, invitato dalla Interform Gallery di Tokyo-Osaka mi ero inventato le NUOVE NATURE MORTE, esposte poi alla galleria Il Salotto di Como.


Vale la pena di raccontare come andò la storia del mio primo lavoro giapponese. Siamo nel 1985, giro per le gallerie di Tokyo con la cartelletta con le mie immagini: una gallerista che ho conosciuto l'anno prima dice che vuol vedere i lavori e non le bastano le fotografie, sebbene le abbia spiegato che quelle fotografie SONO i lavori. Probabilmente aveva capito benissimo ma... Altri sono gentili ma evasivi, finché mi spiegano che sono un vero maleducato a presentarmi senza intermediari giapponesi, e così mi trovo seduto a un tavolo con Michiyo che parla a Kyoko che parla al direttore della galleria, che è seduto di fronte a me. Ci sarebbe da ridere, però mi commissionano un set di cartoline, per cui sceglierò come soggetto FOGLIE e FRUTTA, ma anche le bottiglie del CampariSoda [***], un classico dei miei still life.

Tra queste immagini anche una versione della Canestra di Caravaggio, che mi piace ripresentare in questa mostra, dove la tecnica videopittorica sostituisce quella pittorica tradizionale (il formato è più o meno simile) ma anche il soggetto è costituito da FRUTTA in materiale plastico.                                                  


Nel 2020 il LOCKDOWN mi spinge a concentrarmi sui FIORI del mio balcone, alle stupende buganvillee (che spesso fioriscono anche all'interno durante l'inverno). Intanto la mia tecnica si era obbligatoriamente evoluta, con un uso che trent'anni prima giuravo non sarebbe mai avvenuto, di tecniche digitali, sostituendo spesso alla telecamera il mio cellulare e il monitor del PC al posto del vecchio televisore con i pixel RGB ben in evidenza. Anche i supporti sono cambiati e al posto della tela utilizzo del telo sintetico leggero e arrotolabile; ho anche iniziato a realizzare delle scatole pittoscolpite. Qualcosa viene mostrato nella mostra FRAME FLOWERS & FLAGS per Walk-in Studio.


Nel 2022 riprendo una suggestione di qualche anno prima e mi dedico allo studio della micologia (tanto per ricordare la celebre partecipazione a Lascia o Raddoppia di John Cage [****]). Ma i FUNGHI non sono solo il soggetto: sono anche la TECNICA. Le tracce di fungo sulla carta da forno possono ricordare a volte ad anime sensibili certe immagini del Museo di Hiroshima, ma sono pittura pura. A volte salvo la traccia pura, a volte ricorro alla colorazione, poi alla ripresa videofotografica e alla scannerizzazione, fino alla dima e al monotipo.


Comunque, alla faccia di chi dice che con la cultura non si mangia, garantisco che i porcini che mi fanno da modelli e da co-autori sono sempre buonissimi. Ma non solo con i funghi si può dipingere: la mostra avrà come ospite speciale Carolina Gozzini e i funghi avranno come ospite una melanzana.

NB: Chiunque può realizzare un'opera come questa. Basta avere dei funghi (i porcini sono più cari e ci sono solo per una breve stagione), della carta da forno e un forno. Magari ci riesci. Ma il problema è il solito di tutta la storia dell'arte contemporanea: lo sapevo fare anch'io... No tu lo sai solo rifare. Sempre che tu ci riesca, aggiungerebbe Lucio Fontana.

 

E infine del radicchio, tardivo, ovviamente. [*****]


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[*] Che è la teorizzazione della videopittura, come l'avevo formulata a partire dal 1984.

[**] (la mostra dedicata ad Andy Warhol è del 1987)

[***] A Tokyo, a Nogizaka nel 1984 c'era un distributore automatico di lattine di CampariSoda, molto più gasato del nostro: venticinque anni dopo c'era ancora, ma l'ultima volta non ricordo...)

[****] (che avevo fotografato nel 1977)

[*****] 2023 (come la citata scultura della foglia, realistico ed abbastanza improbabile, ma mi risulta come un omaggio, seppure tardivo, a Graham Sutherland).

 

Closlieu La Traccia non è una galleria d'arte, e neppure un luogo dove si produce arte, ma il luogo dove si pratica il gioco del dipingere, in perfetta coerenza con Museo Teo, che dal 1990 si definisce luogo del gioco e dell'ironia.